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mercoledì 23 ottobre 2013

Un passo nella storia - Episodio 94

di Roberto Pelucchi

Cari amici, con un po' di ritardo rispetto al previsto - dovuto a impegni professionali, e me ne scuso - torna la rubrica "Un passo nella storia". Non sarà più un appuntamento a cadenza fissa, ma vi farà compagnia di tanto in tanto, quando riuscirò a trovare materiale interessante e inedito. L'idea è di regalarvi una nuova chicca ogni mese. Questo blog, che l'amico Massimo cura con tanta passione, è diventato ormai la miniera della memoria storica. Gli articoli d'epoca, gli audio, i video pubblicati, formano un archivio che probabilmente - anzi, ne sono certo - non esiste neppure alla redazione sportiva del Giornale radio. E' un piccolo gioiello, una pianta che va innaffiata giorno dopo giorno, con il contributo di tutti e di cui andare orgogliosi. Oggi vi offro un'intervista a Sergio Zavoli, colonna della Rai prima in radio e poi in tv, uscita sull'Unità del 6 giugno 2001 a firma Oreste Pivetta. Si parla di ciclismo, si parla soprattutto del "Processo alla tappa", trasmissione tra le più riuscite del servizio pubblico. 

"Il Processo alla tappa nacque da una delusione; quella che, ancora bambini, si provava ad ogni passaggio del giro. Allora le scolaresche venivano portate a vedere i corridori che transitavano sulla via Emilia. Quando la carovana era tutta passata e in fondo alla strada spariva anche l'ultimo sidecar con tre energumeni a bordo, occhialoni gialli e spolverino bianco - i quali agitavano una bandiera rossa per avvertire che dietro non c'era più nessuno - si restava in silenzio, incapaci di andarsene. Possibile che non vi fosse più nulla da aspettare, da vedere, da gridare? Che tutto avesse fine in un lampo? Allora, scomparsa la corsa in un folgore di sole, di metalli e di polvere, ci riversavamo in strada. I cani, usciti a loro volta dai fossi, si univano al confuso disperdersi della gente: era proprio finita, si poteva andare via, incontro a una solitudine che sembrava definitiva. In quell'Italia ancora contadina la bicicletta era soprattutto lavoro, faccende da sbrigare, scampagnate, giri con la morosa. Nelle case c'era la radio, gli eventi erano sempre lontani, invisibili. Anche i campioni si vedevano in qualche film Luce o sui giornali. L'arrivo dopo una tappa di montagna con pioggia o neve sembrava la telefoto di un disastro. Furono immagini come quelle, diafane, drammatiche, a rendere epico il ciclismo. Io vivevo in Romagna, il regno della bicicletta, una piccola Cina che pedalava senza posa. Ma quando il giro passava tutto avveniva in un attimo. Al centro della tappa, liscia come un biliardo, Rimini ospitava ogni volta il cosiddetto trasferimento: tutti in gruppo, un balenio di maglie, la carovana pubblicitaria, i grandi tubi di dentifricio distesi sul tetto delle macchine, berrettini e caramelline volavano dappertutto con nugoli di bambini che si contendevano le prede ai bordi della strada. Poi, più niente. Chissà dov'è la maglia rosa! Così, arrivato a Roma, e ormai in pianta stabile alla Rai, chiesi di seguire il giro. Dovevo cercarvi quello che non avevo visto, vedere finalmente che cosa celava il plotone, a cominciare dalla maglia rosa, chi erano gli uomini della corsa, i giganti della strada, come li chiamavano i francesi". In ogni storia, in ogni almanacco del giro, compare una foto: un giornalista si sporge da una motocicletta e, microfono in mano, intervista un ciclista in corsa, riconoscibile Vittorio Adorni. Foto anni sessanta, come l'abbigliamento sobrio del telecronista, la bicicletta, la grande moto della Rai. Una foto storica che racconta di Sergio Zavoli e dell'invenzione del Processo alla tappa, un programma che segnò la televisione, il suo rapporto con lo sport, creò uno stile pacato, elegante riflessivo, aiutò a capire gli italiani e il loro paese. Sergio Zavoli - è lui che racconta adesso - non è più in televisione: ha scelto di diventare parlamentare dell'Ulivo a Rimini, la sua città. Zavoli, quanto i personaggi del tuo Processo rappresentavano un paese non ancora abbastanza lontano dalla guerra per essere entrato definitivamente nell'universo dei consumi, una realtà materiale e culturale tanto complessa, non omologata dal linguaggio televisivo? "Il trespolo che ospitava il Processo era malfermo come il linguaggio, in genere, di chi vi saliva per partecipare a quelle, anch'esse traballanti, sedute. Ciascuno vi portava, impressa nel parlare, la propria origine umana, sociale, scolastica. Allora, lungo i muri, si leggeva "viva Coppi Fausto", il cognome prima del nome, come all'anagrafe, in caserma, nelle bollette, sulla porta, e soprattutto a scuola. La mano di chi si dedicava a quelle scritte sui muri era ancora guidata da un vecchio maestro. Specialmente i gregari disponevano di poche parole e le ordinavano alla meglio, anche se con una bellissima fantasia. Poi, piano piano, crebbero insieme al paese, cambiarono al pari di tutto e di tutti, indossarono la calzamaglia, non lasciarono più la croce sui fogli di partenza, non dissero più "sono contento di essere arrivato uno", sempre che l'avessero mai detto, perché, francamente, quella frase non l'ho mai ascoltata. La civiltà industriale, crescendo, non prendeva più i pedalatori solo dai campi, ma anche dalle botteghe, dalle piccole imprese, dalle fabbriche. I corridori erano diventati, da contadini, per lo più operai. Una piccola promozione, le squadre ebbero condizioni contrattuali più garantite, i corridori più tutele, anche sindacali. Le bici, nel frattempo, avevano perso qualche chilo, Campagnolo aveva inventato il cambio, le strade erano asfaltate, i calendari meno massacranti, gli atleti mangiavano e si curavano meglio. Avevano fatto la loro comparsa i medici e scomparivano via via le fattucchiere. Ma arrivava, subdolo, misterioso, adescante, il doping. La simpamina, un'inezia faceva largo ai miscugli, agli alambicchi, alle pratiche incoffessabili". Come leggevi il ciclismo del giro? Che cosa cercavi nei tuoi interlocutori e che cosa proponevi ai tuoi ascoltatori? "Il Processo privilegiava le piccole storie, ciò che di vivo e inascoltato rimaneva nel ventre della corsa. Erano tanti, piccoli tagli cesarei, per dir così, che liberavano vicende umane, altrimenti destinate a rimanere sconosciute, in cui tutti potevano riconoscersi. Senza bigottismi, enfasi, pedagogie: bastava lasciar emergere ciò che la tappa, ogni giorno, aveva da dire in un altro modo, al di fuori del lato soltanto tecnico. La fuga di Lievore, 183 chilometri avendo un altro corridore davanti, e quindi per arrivare solo secondo, serviva a dire, ad esempio, che la vita non è fatta solo per primeggiare, ma per battersi, contentandosi di arrivare secondi, terzi, quarti...". Quali novità portò il Processo nel linguaggio televisivo? "Introducemmo una sorta di moviola, il radiomicrofono, improvvisammo l'antesignano del tele-prompter, i duplex, i triplex, e così via, facendo ricorso ad ogni piccola diavoleria tecnologica, anche estemporanea, per dare al Processo un linguaggio moderno, che si sposasse con la rappresentazione di cose e sentimenti antichi". Perché la tua trasmissione è entrata nella storia dei media? Quanto "studiate" furono le ragioni del successo? "Giorni fa Aldo Grasso ha dedicato al Processo, sul Corriere della Sera, una serie di considerazioni molto lusinghiere, scrivendo che dietro quel modo di raccontare lo sport c'era un'intenzione, un impegno culturale. Fu un esperimento felice. Nessuno ha mai censito l'ascolto nei bar, che avrebbe portato a sette, otto milioni pressoché quotidiani l'audience del Processo. Per evitare l'assenteismo c'erano imprenditori o semplici proprietari che, all'ora del Processo, mettevano i televisori a disposizione del dipendenti: nessun sindacato al mondo avrebbe ottenuto tanto". C'è continuità tra la scoperta dell'Italia d'allora e il tuo impegno di oggi? Impegno che mi sembra più marcato rispetto alle tue esperienze professionali e alle tue responsabilità in Rai... "La vita di una persona, per tante che siano le sue varianti ideali, concrete, affettive, rimane un unicum che sopravvive a tutte le discontinuità. Quello che fai oggi ha radici chissà dove, ma in qualche parte di te c'era già. Così mi pare. La vita si fa largo lungo l'imprecisione, ma anche la forza di quello che nel tuo intimo ha la natura, diciamo così, per durare. E farsi vivo, prima o poi, in un modo o nell'altro. Così è successo, esplicitamente anche per la politica, che è sempre stata presente nel mio mestiere". "In generale che paese ritroviamo oggi percorrendolo nella carovana? "Quella del Processo è un'Italia scomparsa. Basta guardare il paese dagli elicotteri del giro: un altro mondo". Dopo tanto discorrere su federalismo, devolution, eccetera eccetera, non ti sorprende il valore unificante in senso nazionale e popolare di questa corsa? "Questo è indubitabile: il giro è la bella metafora di un paese che è tutt'uno nella sua unità non solo civile, spiriturale, culturale, ma anche nella sua identità di popolo, di nazione, di stato. C'è una storia comune, pur con le loro diversità, anche nei luoghi, nelle case, nei monumenti, in definitiva nel paesaggio. Il giro rivela tutto questo in modo esemplare. Credo di non mancargli di riguardo immaginando che Ciampi, così attento al senso nazionale come valore unificante, abbia in simpatia il giro d'Italia. Non sarebbe bella una partenza della corsa rosa dal piazzale del Quirinale, magari con un mossiere d'eccezione?".

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