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mercoledì 3 novembre 2010

Un passo nella storia - Episodio 35

di Roberto Pelucchi

L'articolo di questa settimana è preso dal Guerin Sportivo del 13 aprile 2004. E' un ricordo di Enrico Ameri scritto da un radiocronista che gli è stato vicino per molto tempo, Paolo Carbone, morto anche lui improvvisamente il 15 giugno 2007. Carbone, barese, giornalista del Gr2, è stato anche conduttore di Domenica Sport e de La Schedina. Aveva un archivio statistico sul calcio tra i più completi in Italia.

E' difficile parlarne. Davvero difficile. La triste notizia ti arriva tra capo e collo e materializza una realtà che ammutolisce. Con Enrico non è andato via solo il Collega e l'Amico, ma anche una considerevole fetta della mia vita. Una simbiosi professionale di non so quanti anni ed una (mia) formazione da Lui forgiata per diversi mesi con suggerimenti, avvertimenti e consigli, poi inevitabilmente sfociati in un costante rapporto personale nel quale Enrico non fu mai compiacente, predisposto all'autenticità e alla genuinità, non alla mistificazione. In pochi minuti era burbero e cordiale, scontroso e allegro. Quando mi hai chiesto di ricordarlo – caro direttore – la mia prima, istintiva reazione è stata: niente enfasi, soprattutto nessun elogio di circostanza da aggiungere a quelli già piovuti in quantità. Penso infatti – è una mia umile opinione – che ad Enrico non piacerebbero, se è vero, come è vero, che in tanti, tantissimi anni, non l'ho mai, e dico mai, sentito pronunciare una frase che non fosse dritta, diretta, semplice, senza margini d'interpretazione, intrisa di una chiarezza a tratti anche brutale. In fondo è la differenza che c'era tra Lui e l'altro grande, Sandrino Ciotti. Questi è stato sopraffino dispensatore di competenza e acume calcistico confezionati con una lingua italiana a dir poco perfetta, enunciata con sbalorditiva prontezza. Enrico, invece, era l'esatto opposto. Asciutto, essenziale, nessun fronzolo, nessuna concessione ad ipotetiche platee di ascoltatori accademici e altolocati. Mi diceva “se ti capisce uno del popolino ti capiscono tutti. Non devi catturare l'ascolto del commendatore, ma quello del posteggiatore abusivo che ha la radiolina all'orecchio!”. E in fondo è anche la spiegazione di base del suo mai facile rapporto con Ciotti.
Mi torna in mente il suo famoso insegnamento sulla necessità di ricorrere al “ritmo” e non alla “velocità”. Stacci attento (testuale): il ritmo è una cadenza che ti fa stare sempre allineato sull'azione di gioco e ti consente di seguirla senza affanni. La velocità, invece, ti fa dire cose inutili, ti fa mangiare le parole e chi ti ascolta non ci capisce più nulla. Vedi un po' tu! Il “ritmo” è forse l'unico patrimonio acquisibile da terzi che Enrico ci ha lasciato. Se ti ci metti, lo puoi imparare. Da radiocronista cominciai facendo la sua “spalla” (supporto durante il gioco, interviste alla fine della gara, ecc...). Per diversi mesi ho trascorso le domeniche al suo fianco, a contatto di gomito, ingurgitando il “mestiere” a sorsate quasi soffocanti, ascoltando e, soprattutto, “vedendo” letteralmente certi suoi incredibili disimpegni vocali da situazioni di gioco non facili. E qui il discorso scivola sull'altra ineguagliabile eredità che Enrico ci lascia, il “talento”, cioè qualcosa che non si può trasmettere né imparare. O c'è, o non c'è. E quello di Enrico era sconfinato, innaturale se mi passate la parola. Un qualcosa che resta scolpito nella storia della radio, che si può solo rivivere ascoltando le sue trasmissioni, ma che nessuno può illudersi di acquisire. Un mio ricordo nitido: “Devi cercare di dire “rete” un attimo prima dell'urlo del pubblico che va nel microfono e copre la tua voce”. Una parola!
Che dire dei ricordi. A Bergamo, il 3 maggio 1979, primo campo, Enrico e io. In ballo la salvezza. L'Atalanta batte il Vicenza, ma vanno in B entrambe. Sto per andare giù per le interviste ad uno stuolo di giocatori retrocessi. Lui “Buona fortuna, non ti invidio!” e giù una risata piena. L'ho ancora nell'orecchio. E di quando mi raccontò, ridendo come un pazzo, del suo più suggestivo lapsus a proposito di un tunnel non riuscito “... cerca di fargli passare la gamba fra le palle, non ci riesce...!”. E vai così! Potrei continuare a lungo, ma non ci riesco. L'emozione mi fa velo. Mi accordo che sto ricordando Enrico usando me stesso come filtro. So che potrei dire e scrivere tantissime altre cose, fatti, episodi e via dicendo. Per esempio che la mia collaborazione con il Guerino cominciò (1976) grazie a Lui e ad Italo Cucci. Se mi fermo qui chiedo venia a tutti. Nell'illusione che, dove si trova adesso, possa ancora leggermi, chiedo venia soprattutto ad Enrico. Anzi no. Che dico. A Enrico non si chiede venia. Si offenderebbe. A Enrico – è banale, ma autentico – si chiede “scusa”. Appunto. “Scusa Ameri! Scusa Ameri!”.
Paolo Carbone

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