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mercoledì 3 febbraio 2010

Un passo nella storia - Episodio 9

Da Tutto il calcio minuto per minuto non sono passati soltanto radiocronisti, ma anche poeti. Giornalisti che sapevamo andare oltre la descrizione di un calcio d'angolo, di un rigore. Uno di questi era Beppe Viola, un autentico fuoriclasse, un giornalista di razza che se n'è andato troppo presto ed è stato rimpianto troppo tardi, come spesso accade ai migliori. Nella rubrica di oggi vi propongo due articoli presi dal Corriere della Sera: il primo del 16 ottobre 2002 è un ricordo di Giorgio Terruzzi, giornalista di Mediaset che insieme con Marco Pastonesi della Gazzetta dello Sport è cresciuto proprio alla scuola di Beppe Viola. Il secondo, del 19 ottobre 2007, è un commento amaro di Aldo Grasso, nella rubrica "A fil di rete", sul modo in cui la Rai tratta i suoi fuoriclasse. Meritano entrambi attenzione, e Beppe Viola ci mancherà ancora di più.

IL RICORDO / Vent'anni fa moriva il popolare giornalista milanese, campione di umorismo e di ironia
Quelli che sapevano ridere dello sport con Beppe Viola
C'era un timbro inconfondibile nei suoi servizi televisivi alla Domenica Sportiva
Autore di testi, collaborò con Jannacci e lanciò comici come Boldi e Abatantuono

Il 17 ottobre 1982 moriva Beppe Viola: sono passati 20 anni da quella domenica maledetta. Cronista sportivo, lavorava alla Rai, come inviato e telecronista, seguendo in particolare calcio, ippica, pugilato e automobilismo. Ha lasciato un segno con un linguaggio disincantato, anomalo, anticonformista, ricco di humour. E proprio da questa sua vena ironica nasce il Beppe Viola autore. Lavorò con Enzo Jannacci firmando decine di canzoni. Memorabili «Quelli che», adattamento di una lirica di Prevert, e «Vincenzina e la fabbrica» che accompagnò il film «Romanzo Popolare» del quale Jannacci e Viola furono co-sceneggiatori. Viola contribuì al lancio di attori comici di successo come Cochi e Renato, Boldi, Abatantuono e molti altri. Il ricordo del Viola giornalista e autore lo ha scritto Giorgio Terruzzi (giornalista e autore) che lavorò a lungo con lui. Sono intatti i ricordi, non hanno perso forza le parole, quella metrica tutta sua, scandita dai punti, i due punti. Truman Capote e Damon Runyon nell'ispirazione; Milano, il porfido, il dialetto nella dizione. Una traccia che resta, ripassata dalla malinconia per vent'anni: 17 ottobre 1982. L ultima cronaca, l'ultimo foglio nell' Olivetti, l'ultimo giorno di Beppe Viola.
Per ritrovarlo, ritrovare il suo scrivere che era poi il suo dire, serve uno sforzo, bisogna andare più indietro, cacciar via quella stanza lassù al Fatebenefratelli, quella finestra col serramento in alluminio con Franca e le sue lacrime trattenute essendo le figlie quattro, da avvisare in qualche modo, a casa. Ecco, prima. Bastano poche ore. C'era la sua stanza alla Rai e un ufficio in una villetta, viale Arbe. «Magazine» si chiamava, per metterla giù un po' dura con il solito anticipo, «un marchettificio» dove si scriveva attorno a lui, che dava multe se in un pezzo mettevi dentro «sfrecciano», lire 5 mila; «ginocchio in disordine», 10 mila; «il centrocampista va a battere» 20 mila, carta straccia, rifare per favore, dai, su. Insegnava davvero, anche se non lo ammetterebbe nemmeno adesso. Con un rigore non previsto dato il resto, che era un ridere di se stesso, del mondo, a rilancio continuo; che erano notti per bere, raccontare, mettere via facce e frasi rimediate tra l'ippodromo, trotto possibilmente, il cabaret e il Gattullo nel senso dello special, «il panino più caro del mondo». Non contava la bella presenza, giacchette firmate mai viste, cosa frega, ma sul lavoro occhio, guai a sgarrare. Ritmo, linguaggio, le prime tre righe come uno scavatore e le ultime per chiudere con un guizzo, un colpo d'ala. Giornalismo con ironia e stile, alta qualità. Poi si poteva andare a tirar su l'insalata di pollo in rosticceria o una polpetta alla stazione: valeva il viaggio anche se portava via una settimana di vita a porzione.
Calcio soprattutto, sport sempre, come un serbatoio per fare il pieno e poi planare ovunque, scrivere comunque, tenendosi vicino al marciapiede dove stavano i clandestini con le loro parole in codice, chi metteva su i soldi ed era alla canna del gas, chi viveva di notte al Derby Club, sul piccolo palcoscenico oppure nell'ombra dei tavoli, lasciando i Rolex farlocchi nel baule della macchina o magari, chissà dove, il carico di un tir gentilmente sottratto, composto da carriole in numero di tremila. «Ma a lei, dottore, ci interesserebbe l'articolo?». Raccontava ed era già un pezzo fatto, pronto. Un servizio per la Domenica Sportiva inconfondibile alla terza sillaba. Con la televisione un rapporto di amore con un odio da maglione stretto, da burocrazia e raccomandazioni. Permaloso, oh sì, anche se poi passava e arrivava un'altra onda, un entusiasmo, una idea. Da dare a tutti, a troppi, gratis ovviamente, al massimo non richiamano. Il suo mondo si è sfaldato dentro la sua città, tra la radica finta dei bar. Non c'è più quella nebbia da Millecento, da immigrati; quell'atmosfera da Romanzo Popolare, Ugo Tognazzi e una giovanissima Ornella Muti, sceneggiato con un' attenzione che fa epoca ancora adesso.
Marciapiede, appunto, da dove venivano «Quelli che», scritti e musicati con Enzo Jannacci, un elenco sterminato irresistibile annotato dappertutto, fogli e foglietti sopra tavoli e scrivanie: «Quelli che mi saluti la sua signora anche se non ho il piacere. Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro. Quelli che appena salgono su un pullman attaccano un coro di montagna». Jannacci e il primo Abatantuono, Cochi e Renato. Comici di professione e comici naturali da beccare attorno a un biliardo, da citare nei giorni cupi, quando arrivava un'ansia improvvisa e bisognava mettersi lì sistemare i libri, le foto, qualunque cosa, fare un caffè, «mollare la rebonza» e ciao. E' stato un umorista, un grande giornalista, uno dal quale imparare il mestiere: etica prima della grammatica. Sudava a febbraio, figurarsi in agosto, fumava sorridendo davanti alla macchina da scrivere, due fogli, carta carbone nel mezzo. E' andato via presto, si è perso molte cose che non gli sarebbero piaciute e, soprattutto, i suoi amori, la sua famiglia, le sue figlie, che sono grandi adesso e gli piacerebbero moltissimo.
Giorgio Terruzzi

A FIL DI RETE
Mercoledì, quasi tutti i tg della Rai hanno ricordato Beppe Viola, a 25 anni dalla morte. Com'era bravo, come scriveva bene, com' era ironico! Hanno mostrato frammenti della famosa intervista a Gianni Rivera sul tram numero 15, hanno mandato in onda quel tanto di materiale di repertorio che potesse far intendere il suo modo di raccontare lo sport, Enzo Creti ha pensato persino di farsi nominare suo erede da Renato Pozzetto. Non uno che gli abbia chiesto scusa, a nome dell'azienda. Lo so che è difficile, quasi impossibile fare queste cose. Sarebbe però stato bello. Quelli come Beppe Viola devono aspettare la morte o gli anniversari della scomparsa per avere un pò di giustizia. Quand'era in vita, l'azienda lo trattava come l'ultimo dei suoi giornalisti sportivi, un mattoide, uno di cui non ci si può fidare. Erano gli anni di Antonino Berté, di Willy De Luca, di Tito Stagno. Nel 1979 Beppe Viola scrisse una lettera indirizzata alla direzione Rai che è un piccolo gioiello sul tema della vessazione impiegatizia: «L ufficio nr. 341 (terzo piano, sezione giornalismo) è certamente tra i più disastrosi del Palazzo Rai, sia come presenze fisiche, sia per la scarsità dei mezzi audiovisivi che vi contiene. Dopo l'addio del collega Carapezzi Adone, l'ufficio è occupato da Fineschi e dal sottoscritto, accoppiata per nulla prestigiosa, ai quali è stata data in dotazione una scrivania di diverso modello forse perché uno lavora per la radio, l'altro per la tv...». Ma la domanda che dobbiamo porci è un'altra. Perché nel calcio in tv, tanto per intenderci, ha vinto la linea Biscardi e non la linea Viola? Perché oggi in tutte le trasmissioni si urla, si dà spazio ai buffoni, si ragiona come ragionano i tifosi più beceri? Perché anche la Rai, quel Servizio pubblico di cui tutti si riempiono la bocca solo quando devono trarne qualche vantaggio istituzionale, ha favorito la linea Biscardi e ha sempre cassato chi ha cercato di sdrammatizzare le passioni, smussare la veemenza del calcio, dare poco spazio ai cialtroni? Perché chi fa il cretino diventa personaggio, e fa anche ascolto, e chi fa il suo mestiere, bene e con coscienza, è destinato a essere glorificato solo quando non può più nuocere?
Aldo Grasso

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